L'on. Olivi è stato deputato per tre legislature, dal 1976 al 1987.Il suo vitalizio è stato ridotto del 73%. Per giustizia, hanno detto il presidente Fico e gli altri membri del Consiglio di presidenza della Camera.Ma quale giustizia? Che ne sanno loro della storia di Mauro Olivi?Probabilmente nulla. Non sanno che è' nato il 9 luglio del 1937. Che ha iniziato a lavorare all'età di 12 anni.Che è stato attivo nel sindacato, poi licenziato per motivi politici, iscritto al Pci e funzionario di partito e quindi "dirigente" del movimento cooperativo.Ma non ne sanno nulla, probabilmente. Qui di seguito però possono conoscerla, ricostruita nella memoria "previdenziale" che l'on. Olivi ha inviato all'avv. Sorrentino, il legale che ne patrocina il ricorso al Consiglio di Giurisdizione della Camera.
Ecco la "memoria" di un ex-deputato che ha amato ed ama il suo paese e che si è speso per tutta la vita per contribuire al progresso e allo sviluppo democratico e civile dell'Italia:
Egregio Avvocato Sorrentino,
mi permetto, non avendo avuto possibilità di incontrarla direttamente, di esporle in questo mio scritto le esperienze lavorative e quelle pensionistiche avute fin dal 1949 ai giorni nostri. Potrebbe apparire ai suoi occhi un racconto un po’ lungo e complesso, ma la inviterei a tentare di leggerlo fino in fondo.
All'età di 12 anni (sono nato nel 1937), durante le vacanze scolastiche estive, mio padre mi mandò a lavorare da un fabbro ferraio dove partecipavo, con una mazza alta come me, alla battitura dei vomeri incandescenti: i trattoristi che aravano di notte portavano ogni mattina dal fabbro i vomeri da affilare.
Dal 1951 le mie vacanze le ho fatte in un’azienda artigiana - che predispose senza mai utilizzarlo il mio libretto di lavoro -, lavorando prevalentemente al tornio ma anche alla fresatrice e alla limatrice.
Nel 1957, diplomato perito meccanico, sono stato assunto dalla SASIB di Bologna, assegnato all'Ufficio Tecnico Macchine Tabacco (UTMT), come disegnatore. L'Azienda aveva 1000 operai e 200 impiegati e proprio in quell'anno fu comprata dagli americani della AMF (American Machine Foundry).
Nell’UTMT eravamo in 22. Tra di noi c’erano alcuni straordinari progettisti. Al loro fianco maturai in fretta la mia professionalità: disegnavamo le macchine che producevano sigarette. Diciotto di noi non fumavano, io ero adibito all'applicazione filtro: avevo dalla mia quasi una motivazione ideologica per lottare contro i mali del fumo. Fui apprezzato in quell'ambiente da tutti gli altri 21 colleghi, la metà dei quali, politicamente parlando, era formato da democristiani e socialdemocratici, poi vi erano socialisti, un repubblicano, un fascista e tre comunisti, me compreso.
Due settimane dopo l'inizio del nuovo lavoro di disegnatore, nel settembre del 1957, fui avvicinato da Enzo Maccaferri - era uno dei migliori progettisti -, che mi parlò così: " io ho già capito da che parte politica stai. Devi però avere un contegno e un linguaggio più moderati perché questo è un ambiente pieno di spie e a te hanno già dato una fregatura: ti hanno assunto in prova per tre mesi, nonostante tu abbia realizzato il "capolavoro", cosa che ti avrebbe dato il diritto ad una assunzione a tempo indeterminato". Passarono i tre mesi e fui assunto in pianta stabile: anche le "spie", se mai ci fossero state per davvero, mi avevano rispettato e persino voluto bene.
Nel 1958 la FIOM mi chiese di candidarmi assieme a Enzo Maccaferri per le elezioni della Commissione interna (i consigli di fabbrica di oggi). Fra gli impiegati i due seggi erano appannaggio della FIM-CISL. La mia candidatura mi procurò immediatamente rimbrotti e minacce, ma tenni duro. Maccaferri fu eletto, anche per i voti ottenuti sul mio nome: fu un successo insperato anche per il sindacato della FIOM. Agli inizi di febbraio del 1959 la FIOM proclamò uno sciopero, con il quale, oltre e rivendicazioni salariali, chiedeva ai padroni delle fabbriche di fare maggiori investimenti per ammodernare gli impianti produttivi! Gli operai scioperarono al 65% e fra gli impiegati scioperammo in 2: io e Maccaferri. AI rientro in Azienda (lo sciopero era stato di 4 ore, nella mattinata), davanti al mio tecnigrafo, sfilarono, con brevissime soste, decine di impiegati per complimentarsi e alcuni esplicitarono l’impegno ad aderire ai futuri scioperi.
Il 3 marzo 1959 partii per il servizio militare (C.A.R. a Cagliari, poi alla scuola di artiglieria di Bracciano) e tornai a casa dopo 17 mesi, il 2 agosto 1960.
Nel libro che le allego (“Il comunista che mangiava le farfalle”, di Mauro Olivi, Pendragon, 2011, ndr), descrivo la vicenda del mio licenziamento politico con una omissione: non dico che durante la naja Maccaferri si era dimesso per andare in un'altra azienda con il ruolo di direttore tecnico e aveva lasciato vacante il seggio della Commissione Interna, seggio che da quel momento sarebbe spettato a me. La legge infatti stabiliva che i membri delle Commissioni Interne non potevano essere licenziati. Io però non fui mai informato che Maccaferri aveva cambiato Azienda. Fui riassunto per rispettare la legge che non consentiva il licenziamento di un dipendente che rientrava dopo il servizio militare, ma mi fu impedito fisicamente di rimettere piede in azienda. Non mi fu consentito nemmeno di ritornare nell'UTMT per salutare i colleghi. Se li avessi incontrati avrei saputo dell'uscita di Maccaferri.
Tre giorni dopo la lettera di riassunzione, che precisava "con decorrenza dello stipendio ma di restare al domicilio", arrivò la lettera di licenziamento, senza motivazione.
Per difendermi scelsi l'arbitrato.
L’arbitrato era respinto sia dai sindacati che dagli industriali perché il magistrato che lo doveva presiedere era sorteggiato da una terna di nomi proposti rispettivamente dal Tribunale, dal sindacato e dalle associazioni padronali. I sindacalisti mi paventarono il rischio di un sorteggio del candidato dei padroni. Convinto delle mie ragioni non modificai però la scelta a favore dell’arbitrato.
Il licenziamento era avvenuto il 1° settembre 1960; il 5 ottobre 1960 vinsi l’arbitrato presieduto dal dott. Papa, già presidente della Corte d’Appello di Bologna, che era stato il nome proposto nella “terna” dal Tribunale.
Il Presidente Papa emise una sentenza esemplare, che però non ebbe alcun seguito. Ricordo che i licenziati per rappresaglia politica e sindacale degli anni ’50-‘60 furono ventisettemila e cinquecento. Ho saputo soltanto un anno fa che io allora fui l’unico ad aver scelto la procedura dell’arbitrato e ad averla vinta. Prima del licenziamento il responsabile delle “Human Relation” (così gli americani chiamavano il capo del personale), dott. Bolondi, mi invitò a dimettermi in cambio di una consistente buonuscita e mi fece rilevare che con il marchio di licenziato politico non avrei avuto la possibilità di trovare un altro lavoro. Di fronte al Giudice, il Dott. Bolondi rifiutò la riassunzione prevista dalla sentenza e optò per la penale.
Il licenziamento fu traumatico. Ero allora un giovane di 23 anni. Mi costrinse a ripensare al futuro della mia vita, ma posso affermare che se non avessi subito quel sopruso avrei fatto il disegnatore progettista per 40 anni. E non avrei intrapreso quella appassionante "carriera" che ha contraddistinto ogni giorno del mio vivere.
Quattordici anni dopo, nel 1974, il Parlamento stabilì con la Legge N. 36 che per i licenziati politici e sindacali di allora, i diritti pensionistici dovessero essere calcolati come se il lavoro dipendente in quella data azienda non fosse mai stato interrotto.
In ottobre e novembre del 1960 lavorai per uno studio di progettazione che mi inviò presso l’Azienda “Bassi e Massari", un’azienda che produceva filettatrici con disegni del 1935, ampiamente superati dalle modalità tecniche intervenute nel frattempo e proposte da tecnici e operai. Disegnavo per aggiornare e proporre nuove tecnologie produttive.
Poi nel dicembre 1960, fui assunto, nonostante non fossi pienamente convinto, dalla Cooperativa Operaia Fornaciai, azienda storica (oggi non esiste più) sorta nel 1920 per un accordo fra lega Cooperative, Sindacato e Comune di Bologna. Nel 1962 disegnai gli “esecutivi”, partendo da un progetto di massima di un Ingegnere svizzero, di un forno a tunnel per la cottura dei mattoni che rappresentò, essendo il primo in Italia, una straordinaria innovazione produttiva che alleviava la fatica dei fornaciai. Nel 1967, per la prematura scomparsa, all’età di soli 46 anni, del Presidente Ludovico Saccomandi, fui eletto a capo di quella Cooperativa.
Politicamente parlando, ecco un breve riepilogo delle tappe del mio impegno: nel 1961 ero segretario di sezione del PCI; nel 1964 Consigliere di Quartiere; nel 1970 Capogruppo-PCI nel Comune di Bologna; nel 1973 venni eletto Segretario della Federazione Bolognese del PCI; con le elezioni politiche del 1976 fui eletto alla Camera dei Deputati.
Nell'aprile del 1987, prima del termine della mia terza legislatura, fui eletto Presidente della Lega Cooperative di Bologna. In quel momento c'è stato un nodo cruciale della mia carriera pensionistica che intendo sottolineare. Avevo allora maturato esattamente 30 anni di versamenti contributivi: tre anni da impiegato di terza categoria, sette anni di seconda categoria, 20 anni di prima categoria (prima come Presidente della "Fornaciai” poi da segretario del PCI Bolognese e quindi con i relativi versamenti figurativi delle tre legislature).
Mi venne proposto da Lega Cooperative un contratto da dirigente con l'evidente beneficio sulla pensione a fine carriera lavorativa. Rifiutai il contratto da Dirigente perché con i regolamenti parlamentari vigenti nel 1987 io avrei maturato il diritto al vitalizio al compimento dei 50 anni con le tre legislature effettuate. Concordammo pertanto una semplice indennità di carica che però interrompeva la mia concreta carriera pensionistica. Continuava invece la carriera pensionistica derivante dalla L. 36 del 1974 che sarebbe maturata con la 1.a erogazione dell’assegno pensionistico nel 1997 (il sindacato aveva ottenuto, nella fase applicativa di questa legge, che fosse riconosciuto un passaggio di categoria, come era probabile sarebbe avvenuto nella carriera lavorativa svolta per 40 anni nella stessa azienda, così che dalla 3.a categoria passai alla 2.a categoria). Lavorai quindi per altri due anni come presidente delle Cooperative di progettazione di Bologna, sempre con la sola indennità di carica. Poi, per 12 anni, dal 1992 al 2004, come CO,CO.CO. Dal 2004 ho la partita IVA. Fino al 2008 ho ottenuto discreti risultati, poi sono seguiti 10 anni di "lacrime e sangue".
Con tutti i versamenti all' INPS, la mia spettanza, sulla base della L. 36 del 1974, da 1000 € è diventata 1400 €. Se avessi immaginato che lo stato Italiano, attraverso il suo parlamento, poteva retroattivamente modificare il contratto stipulato proprio con i suoi massimi rappresentanti, non avrei sicuramente rinunciato alla opportunità offertami nel 1987 di un contratto di dirigente.
Io, Mauro Olivi, ho svolto con onore il mio ruolo di Deputato, non ho rubato alcun privilegio. Mi si vuole imputare la mia anzianità? Sono troppo fortunato per aver utilizzato il vitalizio per troppo anni? Ma quale giustizia è quella che mi riduce il vitalizio di più del 75 % (settantacinque), quando si propone in contemporanea di ridurre le pensioni d'oro ben più elevate del mio vitalizio, del 10% o del 20 %? Come potrò, passando da 3.800 euro a 1.053,20 euro mantenere il tenore di vita, i contributi politici, sociali e di beneficenza che ho erogato nel tempo e che pensavo si sarebbero interrotti solo con la mia morte?
Nell'attesa della mia dipartita fisica non avevo messo in conto, da ottantunenne, l'umiliazione morale oltre che materiale a cui vengo sottoposto da questo taglio, che va oltre l'immaginabile, e che è perpetrato con crudele ignominia da piccoli uomini di questo Governo, animati da spirito di crudele vendetta distruttiva nei confronti delle basilari regole democratiche e di chi ha operato nelle massime istituzione rappresentative negli ultimi 60 anni.
N.B. Aggiungo, per completezza e precisione, che ho versato volontariamente i contributi per recuperare i 4 anni mancanti (1 legislatura durata 3 anni e due Legislature durate ognuna 4 anni). Per 10 anni ho versato al Gruppo Parlamentare del PCI il 50 % delle indennità di Deputato. Nell'ultimo anno di mandato, 1986-1987, la DC, che regolarmente presentava durante la discussione delle leggi di bilancio dello Stato (denominate per diversi anni "finanziarie") emendamenti per adeguare l'indennità parlamentare erosa dall'inflazione, non presentò alcun emendamento e il PCI decise di trattenere ai propri parlamentari il 55 % dell'indennità! Da notare che il PCI, per salvare le apparenze di un comportamento diverso, votava sempre contro gli aumenti! Confesso che noi parlamentari comunisti, dopo quel voto, esclamavamo: “meno male che c'è la DC!".
Con cordialità e stima.
Mauro Olivi
Bologna 16 Dicembre 2018