Pubblichiamo una riflessione di Giuseppe Facchetti, ex parlamentare e giornalista, sull'equivoca e demagogica equiparazione che si fa tra indennità e stipendi: un argomento delicato e importante, che potrebbe sembrare meramente nominalistico, ma che invece richiama la sostanziale differenza tra l'attività politica e il lavoro dipendente.
"In tempi di invidia sociale, parlare di stipendi è materia infiammabile, anche quando non si tratta di veri stipendi.
Sempre più spesso si sente poi un politico che proclama di fare cose per cui “è pagato”. Lo dice quasi ogni giorno Salvini, lo hanno detto di recente anche Renzi a proposito del lavoro di Conte e Di Battista dello stesso Salvini.
Ma i ruoli istituzionali non sono un lavoro, e la remunerazione di chi pro tempore li ricopre non è uno stipendio.
In un regime democratico, lo stipendio pubblico è riconosciuto ai funzionari che eseguono le direttive dei politici (e comunque guadagnano anche molto più di loro, dai Comuni ai Ministeri), non ai rappresentanti eletti in primo o secondo grado. Può sembrare un nominalismo, ma è grammatica e sintassi democratica. Non avere idee chiare in proposito, significa non aver chiare le regole della democrazia rappresentativa.
Lo stipendio è cosa ben diversa, che assorbe altre finalità diverse, come le contribuzioni sanitarie e previdenziali. Prevede regole attive e passive ben precise come la tredicesima o la quattordicesima, l’orario, le ferie, il riposo festivo, la dipendenza gerarchica e gli altri aspetti del lavoro dipendente a cominciare dalla durata, che è tutelata nella sua continuità. Tutti istituti sconosciuti ad un dirigente politico.
Già è assurdo, da Paese che non ha mai capito le logiche del mercato, aver posto il tetto di 240 mila euro ai dipendenti pubblici in senso allargato, prendendo come riferimento il Presidente della Repubblica, cosa offensiva per questa funzione e del tutto incongrua: cosa hanno in comune un dirigente ministeriale e la massima carica dello Stato?
Quello di un parlamentare o di un membro del Governo, non è neppure un lavoro, ma una funzione. Considerarli impiegati dello Stato è veramente fuorviante e anche un po’ umiliante.
Sono soggetti remunerati per rappresentare il popolo nel suo insieme o per dare esecuzione alle scelte dettate dalla maggioranza parlamentare. Rispondono solo politicamente di quello che fanno o non fanno. Possono essere rieletti anche se non vanno mai in Parlamento, o non rieletti anche se hanno percentuali di presenza del 100% (succede molto spesso).
E’ uno degli aspetti positivi del precetto costituzionale, che qualcuno vorrebbe abolire, del non vincolo di mandato. L’autonomia anche economica del parlamentare è un bene di rilievo costituzionale. Persino chiedergli di versare un contributo a favore del partito, come fanno molti gruppi, o prevedere una “restituzione” come fanno i 5Stelle, incide su questa libertà. In quest’ultimo caso, il movimento chiede un investimento propagandistico, un po’ come il finanziamento di una campagna pubblicitaria, che nello specifico è anche molto efficace. Si usano però fondi pubblici per ottenere risultati utili solo ad una parte. Il finanziamento dei partiti è altra cosa: è un fondo destinato a sostenere un’attività, quella di tutti i partiti, considerata di interesse generale, perché in democrazia il ruolo del pluralismo è un bene assoluto.
C’è una gran polemica sul fatto che il Ministro degli Interni in carica non sia mai in ufficio ma, sempre perché non è un lavoro, è cosa legittima, anche se del tutto inedita per questo ruolo così delicato.
Può non piacere, ma è libero di farlo perché anche il Ministro degli Interni è innanzitutto un politico, e risponde solo politicamente di quello che fa o non fa. Lo giudicano gli elettori, non il capoufficio. Così come è normale che per ragioni di sicurezza non usi mezzi privati. La sceneggiata l’ha fatta Fico con quella messa in scena del cittadino che va in bus (una volta sola, e con grave dispendio di mezzi, nonché rischi per sé e per chi lo proteggeva).
La lingua italiana ha scelto un termine per indicare la remunerazione che viene riconosciuta a chi ha ruoli istituzionali, almeno da quando, oltre un secolo fa, si comprese che la politica non poteva essere riservata ai ricchi e ai nobili, che fino ad allora ritenevano addirittura degradante accettare un emolumento.
La parola che fu scelta era, ed è, indennità. Cioè una specie di risarcimento. E’ bene riflettere su questa differenza. Si tratta semplicemente di un compenso per un ruolo svolto a nome di tutti, alternativo o complementare con quello privato. E l’entità del compenso è anch’essa simbolica, certamente difficile da determinare con equità oggettiva. Un Ministro ha compiti e responsabilità non inferiori a quello di un grande manager o amministratore di Banca. Per quest’ultimi sono previste remunerazioni anche milionarie, senza scandalo. Per un Ministro è invece considerata eccessiva già l’equiparazione all’indennità netta di un parlamentare, che è poco superiore a 5000 euro. Questo è dovuto al fatto che sono soldi pubblici e gli altri sono privati, ma è forse anche interesse pubblico che chi Governa un Paese abbia un livello di vita dignitoso e anzi elevato. Poi uno sceglie liberamente se fare o non fare un certo mestiere, anziché affidarsi alle precarie condizioni della vita politica, che per definizione è normalmente breve.
Proclamare ad ogni piè sospinto che si lavora nelle istituzioni rappresentative ricevendo uno stipendio, è dunque molto demagogico e democraticamente scorretto, ed è solo un contribuito alla volgarità dilagante dell’invidia sociale.
Ben altri sono i problemi, anche se sappiamo bene che questi ragionamenti non sono popolari.
Ma se un Ministro irresponsabile con una dichiarazione motivata solo da esigenze elettorali fa scattare in alto gli interessi sul debito pubblico, dovrebbe essere percepita come cosa ben più grave che usare l’auto o l’aereo blu. Si perde il senso della gerarchia di ciò che è veramente importante, e si avvelena pericolosamente il clima democratico.
Beppe Facchetti"