Proponiamo una riflessione sulle recenti elezioni amministrative e in particolare sull'astensionismo, tratte dalla relazione introduttiva di Antonello Falomi al Consiglio Direttivo del 22 ottobre scorso.
I risultati del voto recente si possono analizzare da diversi punti di osservazione
Dal punto di osservazione delle forze politiche: come momento di verifica della giustezza della linea politica perseguita; come momento per confermare o ridefinire la propria prospettiva politica; come occasione per consolidare o cambiare i propri assetti organizzativi.
C’è pure il punto di osservazione del voto da parte degli interessi sociali e delle organizzazioni che li rappresentano: le elezioni costituiscono un momento di riflessione per capire quanto le condizioni particolari emerse dal voto possano nuocere o possano sostenere gli interessi che rappresentano.
C’è il punto di osservazione del governo: le elezioni sono sempre un momento di verifica del suo consolidamento e della sua stabilità
Per una associazione come la nostra che non è una forza politica, non è una organizzazione sindacale, che non ha responsabilità di governo, esiste uno specifico motivo di riflessione sul voto?
Per una associazione come la nostra, fatta di persone di ogni orientamento politico, accomunate dall’esperienza parlamentare e che nel suo statuto si propone di far conoscere la storia e valorizzare la funzione del Parlamento, di difendere e attuare i principi della costituzione, lo specifico, il punto di osservazione dal quale guardare ai risultati elettorali è quello dello stato di salute della nostra democrazia e, in particolare, della democrazia rappresentativa
La tornata elettorale di cui parliamo oggi è quella di una consultazione amministrativa e regionale che ha coinvolto 12 milioni di elettori e di elettrici. Un campione significativo.
Come accade in tutte le consultazioni locali ci sono fattori specifici che pesano sui risultati;
L’ampiezza della dimensione locale, la valutazione delle esperienze dei governi uscenti e dei loro leader istituzionali, la credibilità dei candidati a sindaco o a Presidente di Regione.
La specificità delle consultazioni locali pone, in sostanza, dei limiti ad una valutazione politica generale del voto
Ciò non di meno, la valutazione del voto nei grandi centri urbani, dove più forte è la dimensione politica rispetto alla dimensione amministrativa, offre interessanti spunti sullo stato di salute della nostra democrazia
Come sapete sono cinque le grandi città nelle quali si è votato: Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e Trieste
Un primo dato interessante, ma soprattutto preoccupante, che salta agli occhi è la scarsa partecipazione al voto
Nei cinque grandi centri urbani la partecipazione è stata del 48,8%, meno della metà degli elettori si sono recati alle urne, con un minimo del 47,2% a Napoli e un massimo del 51,2% a Bologna
Rispetto alle precedenti elezioni amministrative del 2011 il calo è stato consistente, la partecipazione al voto si è ridotta del 13%. Una ulteriore riduzione del 6,2% si era registrata anche nelle elezioni comunali del 2016 rispetto al 2011.
Una tendenza alla riduzione della partecipazione, tipica dei sistemi elettorali a doppio turno, si è ulteriormente manifestata nelle città che sono andate al ballottaggio; Torino, Roma, Trieste.
Le analisi dei flussi elettorali prodotte da diversi istituti specializzati danno conto delle forze politiche che sono state più penalizzate dal non voto e dalla dimensione territoriale di questa di questa tendenza (Nord-Sud/Centro-periferia).
Per quello che qui interessa, l’astensionismo consistente - potremmo dire che si tratta della prima forza politica - segnala uno pessimo stato di salute della nostra democrazia rappresentativa.
Il nostro compito non è, oggi, quello di far scivolare come acqua sul marmo, le tradizionali riflessioni sull’astensionismo tipiche di ogni tornata elettorale.
Al contrario, dobbiamo tener viva la riflessione su questo fenomeno per trarre tutte le indicazioni utili che possono aiutare a rimettere in salute il nostro sistema democratico.
Il nostro allarme sullo stato di salute della nostra democrazia rappresentativa parte de una considerazione semplice.
Se una regola fondamentale della democrazia rappresentativa è che la maggioranza decide, quando a votare va una minoranza di cittadini vuol dire che c’è una maggioranza di cittadini priva di voce e di rappresentanza.
A Roma, il sindaco è stato eletto da 565.352 elettori, cioè dal 23,9% degli aventi diritti al voto.
A differenza di quanto accade nei referendum o nelle assemblee elettive dove per decidere ci vuole il numero legale, nelle consultazioni politiche o locali, questa soglia di partecipazione non esiste. Anche se si presentasse alle urne solo l’1% degli elettori/elettrici, le elezioni sarebbero valide.
Non credo che si possa fare altrimenti magari ripristinando l’obbligo del voto o riducendo il numero dei seggi assegnabili, come propone, ad esempio. Michele Ainis.
Credo, invece, che la strada migliore sia quella di cercare di comprendere le ragioni che spingono la maggioranza dei cittadini a non votare.
Non c’è dubbio che l’astensionismo misura il tasso di delusione dei cittadini nei confronti dei partiti che avevano votato in precedenza.
I dati sui flussi elettorali ci dicono che nell’ultima tornata elettorale i partiti più penalizzati dall’astensionismo siano stati il M5S e la Lega di Salvini.
Nelle elezioni politiche del 2018 nelle quali votò il 73% degli aventi diritto, Lega e M5S raggiunsero insieme la maggioranza dei voti validi, il 50,03% dei voti validi e il 55,5% dei seggi alla Camera dei Deputati.
Lega e M5S stelle riuscirono a intercettare e a rappresentare il disagio, la rabbia e la protesta di una parte consistente dell’elettorato italiano.
La fuga verso l’astensionismo di molti elettori di Lega e M5S segnala l’erosione della base di consenso su cui le due forze politiche avevano costruito le loro fortune elettorali.
Quelle forze politiche hanno pensato che fosse sufficiente individuare i nemici da punire (la casta, i partiti, i parlamentari) e le misure sociali simboliche da approvare (quota 100, reddito di cittadinanza) per continuare a mantenere e consolidare la loro base di consenso.
Hanno soffiato sul fuoco del disagio, della precarietà, della povertà, delle difficoltà economiche e sociali, del degrado dei territori per ottenere consensi
Ma alla prova del governo non sono stati capaci di risolvere i problemi da cui avevano tratto forza
Anziché rispondere ai problemi e risolverli si è preferito dare la caccia ai presunti colpevoli (la casta, il vecchio sistema politico, la politica, i partiti, i costi della politica) e a infliggere loro punizioni esemplari: i vitalizi, la riduzione dei parlamentari, dei consiglieri comunali e regionali, la cancellazione delle province.
L’altra faccia della caccia ai colpevoli e alla loro punizione, è stata quella di varare misure sociali esemplari che alludevano ai problemi ma non li risolvevano; quota 100, reddito di cittadinanza
Di fronte ai problemi avevano evocato la palingenesi totale, avevano acceso le speranze di un cambiamento ma, come si dice, i problemi hanno la testa dura.
Sono ancora lì, anzi, con la pandemia si sono aggravati e diffusi.
La delusione che ha spinto verso il non voto gli elettori di alcune forze politiche è solo l’altra faccia delle speranze suscitate e delle promesse non mantenute.
Il non voto costituisce un serbatoio da cui, di volta in volta, traggono forza movimenti e partiti che possono mettere in discussione i diritti di libertà e gli equilibri costituzionali su cui si regge la nostra democrazia.
Per evitare che questo accada, dobbiamo fare tesoro della lezione di Piero Calamandrei, quando nel 1945, nel suo scritto “ L’avvenire dei diritti di libertà”, riferendosi al liberalismo economico del XIX secolo come strumento di cui la borghesia si servì per escludere tutti gli altri dal godimento delle liberta politiche, scriveva che “ vera e piena democrazia non si può avere se non là dove i tradizionali diritti di libertà politica si accompagnino ai nuovi diritti sociali, così democrazia non si avrebbe là dove, per appagare l’esigenza economica, venissero ad essere limitate o soppresse le libertà politiche”.
Ma l’astensionismo non è soltanto un problema che riguarda le forze che ne sono state particolarmente penalizzate.
Riguarda anche coloro che giustamente si sentono i vincitori di questa tornata elettorale
Quelli che hanno vinto sono soltanto quelli che hanno perso di meno. Basta guardare i dati e le cifre assolute
Di fronte ad un fenomeno che ha assunto nel tempo dimensioni sempre più ampie, vince chi perde di meno. E anche questo non è un bene per la democrazia
I vincitori di oggi dovrebbero stare attenti a non dormire sugli allori di un risultato fragile, ambiguo, reversibile.
Oggi chi ha a cura dello stato di salute della democrazia non si può limitare alla solita lamentazione sull’astensionismo che, come abbiamo visto, dura lo spazio di un mattino.
È un tema che merita un approfondimento. Non lo si può liquidare, come hanno fatto in queste ore alcuni leader politici, come espressione della crisi della democrazia ma non di quella dei partiti.
Come se partiti e democrazia fossero entità separate e non entità che si alimentano l’una con l’altra.
In una riflessione di Nando Pagnoncelli, pubblicata martedì scorso sul Corriere della Sera, si individuavano le cause dell’astensionismo, nel forte indebolimento delle appartenenze politiche, nella minore importanza attribuita alla politica, nella generale disillusione, nella sparizione delle organizzazioni di partito dai territori e si sosteneva che senza nuove forme di partecipazione il nodo dell’astensionismo fosse irrisolvibile.
Cause che, in sostanza, rimandano alla crisi dei partiti, dello strumento, cioè, individuato dalla Costituzione (art. 49) per concorrere, con metodo democratico, alla determinazione della politica nazionale.
L’astensione dal voto, però, è anche figlia del clima ostile che, ormai da troppo tempo è stato costruito contro la politica e contro i partiti
Soltanto tre giorni fa il Presidente di Confindustria affermava, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che “non possiamo permettere che la politica blocchi il processo delle riforme o ne rallenti il percorso…dobbiamo impedire una simile deriva: questi sono i metodi di una vecchia politica che si legittima solo attraverso la contrapposizione”.
Una dichiarazione che si commenta da sé ma che esprime bene quella sorta di “pensiero unico” che domina ancora la scena politica, mediatica e giudiziaria del Paese e che alimenta non solo le derive populiste del sistema politico ma anche le pulsioni tecnocratiche di una parte importante della società italiana.
Tutto ciò che ha a che fare con la politica ed i partiti, comprese le istituzioni rappresentative della sovranità popolare, è stato e viene rappresentato come casta, privilegio, corruzione, rissa, lotta di potere che ostacola le giuste scelte.
Attorno a questa visione della politica e dei partiti si è costruito un senso comune di cui possiamo trovare continuamente traccia negli editoriali dei giornalisti di punta, nei talk show televisivi, nei rotocalchi e spesso anche negli spettacoli di intrattenimento e nelle fiction televisive.
Ma di questo ne parlerà più diffusamente Mario Barbi nella parte della nostra riunione dedicata alla comunicazione e all’informazione.
Un senso comune che si è trasformato in un senso di colpa della classe politica che anziché correggere i propri errori ha preferito ridimensionare sé stessa e il proprio ruolo nelle istituzioni rappresentative.
Da qui nascono, a mio parere, il colpo pesante inferto alle possibilità di sopravvivenza economica dei partiti con il taglio del loro finanziamento pubblico, la loro conseguente trasformazione da strumenti di partecipazione democratica capillarmente diffusi nei territori in strumenti al servizio dei leader e della loro corte; la perdita di visione generale e l’affermarsi della “dittatura del quotidiano” imposta dall’ultimo sondaggio; le leggi elettorali che restringono e mortificano la partecipazione dei cittadini e il loro concorso alla politica nazionale; il ridimensionamento delle garanzie che sostengono l’autonomia e la libertà della funzione parlamentare; la riduzione dei parlamentari, dei consiglieri regionali e comunali e la cancellazione delle Provincie; la distorsione dei rapporti fissati dalla Costituzione tra Parlamento e Governo; il taglio retroattivo dei vitalizi; legislazioni giudiziarie con ambigue fattispecie di reato e aggravamento delle pene.
Contribuire a rovesciare questo senso comune è il nostro compito.
È una impresa enorme ma ad essa dobbiamo dare il nostro contributo.
Questo significa, COVID permettendo, rilanciare con forza la nostra iniziativa politica e culturale.
Riforma dell’autodichia, statuto del Parlamentare, sostegno alla ricostruzione dei partiti e alla attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, debbono diventare non solo proposte da offrire al confronto con le forze politiche e parlamentari, ma anche e soprattutto occasione di forti iniziative culturali che facciano emergere un altro punto di vista, un altro senso comune.